Le parole non sono abbastanza. Lo diceva Caproni, quando scriveva “Le parole. Già./ Dissolvono l’oggetto”. Eppure nella loro debolezza, nel loro “vuoto” con cui lo stesso poeta le ha definite, sono tessere necessarie e immancabili di un mosaico sonoro ricco, come quello della poesia. Tessuto pieno di non detto, di spazi vuoti di silenzio, che sono l’apertura del respiro necessario alla frase musicale, prima che essa si pronunci, e che la compongono. La stessa frase dello spartito, che viene pronunciata e si distingue per il vuoto dove galleggia. Si pensi alla musica barocca, dove addirittura, proprio come nella lingua, si parla di articolazione per identificare quello spazio di respiro, potremmo dire, tra un verso e un altro nello spartito. I silenzi annunciano il suono e se ne riempiono. È vero che nel silenzio e nel respiro concentrato del musicista, prima di suonare, si rivela l’interpretazione che seguirà, il suo “canto”. Il celebre pianista Charles Rosen scriveva “un suono che canta sul pianoforte non è dato dallo strumento ma dal modo in cui esso è sfruttato nelle singole frasi musicali, e questo non si ottiene meccanicamente e non è una semplice questione di tecnica, ma è il risultato di una costante musicalità.” Proprio questo “canto” è ciò che lega il suono dello strumento a quello della parola poetica. I versi dunque come tessuto di suoni che vengono “fatti cantare”. Nella Scatola nera ancora Caproni, paragonando proprio la parola poetica all’effetto del tasto premuto sul pianoforte e alla produzione di armonici che ne deriva, parla sostanzialmente di un’evocazione, un richiamo semantico che la parola poetica è in grado di produrre nella sua unicità di scrittura. E a evocarlo è un significante, una sequenza sonora. Sicuramente il canto, con la sua melodia, il suo ritmo, fa della poesia l’espressione più musicale del linguaggio e la rende anche l’arte gemella per eccellenza della musica. Poesia e musica dunque come legame necessario e originario. Il rapporto “prescelto”, “destinato”, pieno di affinità e basato sulla stessa sostanza.
Tornando alla parola poetica, questa tenta l’impresa di catturare la realtà traducendola in suono, quasi segnale sonoro che emerge dalle cose. Quasi a disvelarsi, a cessare il silenzio (forse solo apparente) e renderlo musicale, di apertura. La poesia, come l’arte tutta (ma forse con un’ambiguità maggiore), si fa connessione tra un “al di qua” e un certo “al di là” (qualsiasi esso sia): si aggancia a qualcosa d’altro che è legato all’essenza atomica delle cose. Se il verso è quella musica in grado di “cantare” (a seconda di come “si toccano” le parole, che in fondo sono piccole composizioni sonore), esso in questo modo collega, per mezzo del suono, due realtà lontane e al tempo stesso coincidenti. Il verso poetico quasi traduce in musica il reale. L’essenza reticolata e diramata degli oggetti è filtrata in ogni sua parte. La poesia (quasi radar) è forse quell’arte che più si intarsia in profondità nella materia, come a scandagliarla e farla affondare nella sua gravità o nel vuoto più acuto. Ida Travi parla in proposito di una “poetica del basso continuo”, che percorre dal basso le cose, facendosene ossatura nascosta ma fondamentale. Non solo però, da un lato, la poesia si addentra nelle cose, ma vi si interseca, si fa rete tra esse. Le unisce. Finisce per connettere un “qui” a un “altrove”. Risolve un’inguaribile incomunicabilità, sciogliendola con la musica. La poesia finisce per riprodurre il suono del pensiero. Lo tenta, disperatamente. Ed è proprio qui che ha origine la radicale “ispirazione”: in un amore appassionato, smisurato. Per questo la poesia non ha gerarchie nel suo campo di “ricerca” e affonda in qualsiasi esistenza che, per quanto raggiunta e amata, rimane sempre sconosciuta in qualche parte. Sarà questa mancanza costante di conoscenza, di appartenenza, che lotta col desiderio ardente di possedere, trattenere la realtà, ad alimentare la tensione dello sguardo e la scrittura. Alla base dei versi c’è una distrazione incessante degli occhi, in una vita concentrata nel tentativo di capire e di capirsi per mezzo dell’arte.